Académia Ligùstica do Brénno

parlémmo a nòstra léngoa

Académia Ligùstica do Brénno
 
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'Na coixitæ

[ Grafîa ofiçiâ ]

Za do 1926 se poéiva avéi a grafîa ofiçiâ!!!

 

St'articolo chi, ch'o l'é stæto publicòu do 1926 (mìlle neuveçénto vintisêi), o l'é da lêze! O contêgne e premìsse e-e concluxoìn, scibén che gh'é quàrche diferénsa marcâ inte nòtte, ch'àn portòu l'Académia a stabilî a grafîa ofiçiâ.

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Grafîa ofiçiâ

Màppa do scîto

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Covertìnn-a

 

Come scrivere il genovese?
Ad A. Sacheri

Caro Sandro,

io scriverei segûo,- mogogno - stréito. Una volta che siam d'accordo che l'o genovese è sempre dolce, che si pronunzia come l'u toscano, è assolutamente inutile complicare la nostra grafia, in modo da spaventare chiunque voglia scrivere o leggere il genovese. Trascuriamo pure le còcine che variano non soltanto da paese a paese, ma persino da sestiere a sestiere. Variavano anche di più nel passato, ma anche oggi, pur essendo le cose molto cambiate, tuttavia...

Non curiamoci dunque de minimis. Stiamo sulle generali e vediamo di accordarci.

Ancora Caprile scriveva mugugno: impressionato dal crescente numero di foresti, perché non pronunziassero mogogno all'italiana. Ma se noi diciamo: «quando vogliamo che lo scritto o abbia valore di o italiana metteremo un accento grave», ecco che tutto si semplifica. E dico accento grave pensando alle difficoltà tipografiche, specialmente odierne. Meglio sarebbe poterlo segnare con la lineetta orizzontale, come si servono i latini per segnare le lunghe, ma con l'uso della linotype è necessario semplificare più che si può. Quindi restiamo d'accordo. Quando l'o non ha alcun segno, si pronunzia u all'italiana; quando avrà l'accento grave, sarà o italiana; e quando vorremo un suono prolungato, metteremo l'accento circonflesso. (1)

In edizioni del passato troviamo l'accento circonflesso anche su ô che che voglia la pronunzia di u italiano prolungato; ma meglio sarebbe scrivere ö (2) con due puntini sopra . Nelle vocali composte restiamo d'accordo così: ae - oppure æ attaccati insieme - suona sempre come è larga, anzi molto larga (3). Come in , poæ; bae, poae. Meglio che scrivere bèe, poèe, dicono i classici. Perché? oe, oppure œ attaccat'insieme è l'eu francese. Come il francese cœur, c'è chi scrive coeû. Preferisco scrivere cheû (4).

L'italiano ormai può servirci di norma. È vero che il genovese ha la stessa origine del provenzale; e quindi l'ortografia può assimilarsi all'ortografia francese; ma è anche vero che il genovese ha risentito dei contatti con la gente foresta e quando erano in auge gli spagnuoli, ha risentito di certe influenze ortografiche spagnuole; come quando fu in auge la Francia ha risentito dell'influenza grafica francese. Campann-a ad esempio fu anche scritta campaña, a ricordo della spagnolità seicentesca. Preferisco campann-a e non approvo di scriverla campanna senza il leggero segno di lineetta a precisar il suono speciale genovese. Perché chi è genovese, non si spaventa di leggere la sua lingua: tanto è vero che legge con la stessa inflessione e lo stesso piacere sia il Cavalli che il De Franchi; il Piaggio come il Bacigalupo; il Malinverni come il Rocchino; il Cogorno come il Merello; il Carbone come ecc. ecc.

Ma per chi non è nato a Genova, un segno, per piccolo che sia, si deve pur dare: a fine di richiamar l'attenzione e precisar la pronunzia.

Ecco perché preferisco scrivere cheû: perché œ, oe è facilmente confondibile con æ,ae, specie se è stampato in corsivo.

E poi nasce sempre il dubbio se sia suono dolce o suono duro. Quando mettiamo in ballo l'acca, allora ogni dubbio scompare: sappiamo che l'h indurisce e la pronunzia rimane decisa. Per esempio vedo scritto cæo (chiaro). Non c'è h quindi suono dolce. Scrivo: ghælo: Damme un ghælo de setron (Dammi uno spicchio d'arancia). C'è l'h: il suono è duro (5). È limpida la differenza tra spiga e piggia. L'i talvolta è puramente segno ortografico che cade: figgia, figgette.

E ho scritto setron. Invece di scrivere çetron. Sì, anche questa mutazione io vorrei. (6) Poiché l's in genovese ha sempre suono sibilato come in italiano: l's dell'italiano rosa - (a reuza) - si scrive con z, perché la z italiana in genovese non c'è, non esiste. Si può usarla come un segno etimologico, ma come pronunzia non c'è. Persino in zin (riccio di mare) è suono genovese: non è il ts dell'italiano zio, zufolo. E non è neanche il dz della z italiana: manzo. Quando diciamo Zòrzo son due esse dure come in reuza.

Avrai notato che non ho messo alcun segno sopra l'eu di reuza.

Siccome l'u genovese è sempre come l'u francese, unicamente metterei l'accento circonflesso quando volessi suono prolungato. Ad esempio: ti veû? (tu vuoi?). Ma quando non ci fa di bisogno, metterlo è inutile. Così scrivo un pan (un pane), cheugge (cogliere), feugge (foglie).

L'accento grave sull'u lo userei soltanto come accento tonico. Lùcido, ùmido. Ho preso due parole perfettamente rispondenti alla parole italiane per essere rapidamente inteso. Perché è un po' il mio difetto: di non saper travasare nel cervello altrui rapidamente quello che penso io. Ed è perché mi conosco, che non son mai contento di quello che scrivo.

La questione dell'e è la più ardua e la più semplice. L'e genovese è sempre dolce: cavelli, cappello. Sicuri di questo, vocabolarii e autori hanno messo persino l'accento circonflesso sull'e volendo segnare prolungamento di suono dolce. per dire pee. O pee, i pee. (Il piede, i piedi). Aspêta un pittin (aspetta un pochino). Io preferirei scrivere , aspëta. Quei due punti - la dieresi - danno l'idea di un prolungamento, senza mettere in dubbio i non genovesi sulla pronunzia larga o stretta. (7)

Restiamo dunque d'accordo che i due punti sopra valgono a precisare suono allungato e distacco di vocale dall'altra che immediatamente la precede o la segue. Come nel latino poëta, in genovese possiamo scrivere poëta o poéta. Così scriviamo «che öa l'é aoa?». (Che ora è adesso?). E il suono allungato talvolta vuol ricordare la caduta di una lettera come nel francese fenêtre che segna la caduta dell's. Confronta l'italiano finestra. Così - ad esempio - il genovese döçe - o döse - ricorda la caduta dell'l in dolce.

L'ortografia è bene che abbia di questi addentellati etimològici. Ma fino a un certo punto.

Non mi rincresce mica çittæ, döçe. Quando abbiamo precisato che il ç con la cediglia vale s, tutto riesce facile. E quindi non deve riuscir difficile leggere: E straççe van a Vötri. (Gli stracci vanno a Voltri).Ma se anche fosse scritto «E strasse van a Vötri» mi pare che quasi sarebbe meglio. Non sarebbe mica male scrivere hò parlòo (ho parlato) invece di scrivere hò parlòu: perché noi sappiamo che l'o senza alcun accento suona u italiana: ma poiché parlòu è la forma usata da quando scrivono alla moderna ciò che all'antica scrivevano parlao, vogliamo continuare a tener la forma ormai da tutti usata?... Hò? - Sì: io terrei l'h etimologica - segno ortografico, quindi che non si pronunzia - in cinque voci del presente avéi (avere). Mi hò - ti ti hæ - lë o l'ha - Noiatri emmo - voiatri héi - lö han. Serve a distinguere ho verbo dalla congiunzione ò: come nell'esempio: «ò ti ò mi, quarchedun ghe saiâ pe sinqu'öe». (O tu o io, qualcuno ci sarà per le cinque), e serve a distinguere héi da ëi (eravate). (8)

Così etimologicamente vediamo scritto maöxi per ricordare i marosi, mentre si pronunzia mòoxi. Ora ci vuol del coraggio: e scrivere possibilmente come si parla. (9)

Mentre ti scrivo, le donne della Foce gridano:

- Oh che bèlli gianchetti! E vé-i chì i Foxani. Miæ che i han piggiæ òoa! (esse dicono òoa e non àoa). E boggîvei e frizzéivei, dònne! I ciù bèlli. A un e vinti l'ètto.

Quel bèlli e quell'ètto io li ho scritti con è (e accentato grave) a segnar l'eccezione dell'e normalmente dolce.

Così, quando vorrò precisare una parola sdrùcciola, userò per accento tònico l'accento acuto se il suono è dolce (stretto); userò il grave, se l'è ha suono aperto (largo).

Prendiamo, per precisare l'accentazione, qualche voce di verbi.

Mi parlo - ti ti parli - lee o parla - Noiatri parlemmo - voiatri parlê - lö pàrlan.
Mi cûxo - ti ti cûxi - lee o cûxe - Noiatri cuximmo - voiatri cuxî - lö cùxan.
Mi cheuxo - ti ti cheuxi - lee o cheuxe - Noiatri chexemmo - voiatri cheuxéi - lö cheùxan.

che al passato faranno:

Mi ho parlòo - Mi ho cuxïo - Mi ho cheutto.

È superfluo notare che il genovese non ha il passato remoto. Hanno tentato d'introdurlo certi autori, ma il popolo non ne vuol sapere. Quindi, niente.

Parlemmo ciæo, ma parlemmo co-o popolo.

Istintivamente ho scritto ciæo con l'i. Ah sì! perché, per esser certi di questa fede che vince ogni errore è meglio scrivere ciæo.

- E se... - mi par di sentirti dire - dopo tutta questa bella disquisizione, uno saltasse su e scrivesse addirittura cèo, non sarebbe meglio? - E non hai mica torto. Basterebbe esser precisi negli accenti. I Francesi li hanno bene i suoni larghi e i suoni stretti, e li precisano bene col solo giuoco degli accenti. (10)

Perché scrivere pærsego? Non è meglio pèrsego?

E sulla stessa traccia: sémoa, celo, scémpio? Perché fâ scempio de vocali composte e de scillabe ingarbuggê quande se ne peû fâ a meno?

Non è scritto chiaro così:

L'ôxellin ch'o xeûa (l'uccellino che vola)? Il genovese x ha suono di j della lingua francese. Questo suono ha dato tanto da fare agli scrittori genovesi. Ancora Malinverni scriveva sgheûa. Tagliamo una buona volta il nodo gordiano della tradizione. E scriviamo: Xenâ, (11) Bixio, Giôxe. «E questo fia suggel» alla Dantesca. Per darti una sintesi di questa chiacchierata ortografica ti riproduco una strofa dell'«Inno a Zena». Vedi un po' se, scritta così, ti pare si possa capire da genovesi e da foresti.

Viva Zena

ch'a dixe a l'Italia: «Mameli e i mê fòrti
pe-a Patria han visciûo, pe-a Patria son mòrti
San Zòrzo o l'é pronto co-a lansa luxente,
ne-o caxo, a combatte e a vinse, o serpente;
e o gh'ha i tréi colori. Italia! gran Moê
dà un baxo a teû figgia, che tutti a veû frê».

So. Rimane un po' turbato il nostro occhio dal vedere moê, frê non più con la vocale composta æ che è ricordo del contatto latino. Ma semplificare, quando si può, non è bene? Tanto più quando questa vocale composta, per comodità tipografiche, la stampano ae, distaccando i due elementi e generando confusione. Quanti, che vendendo scritto paegio rimangono in forse nella lettura, mentre scrivendo pêgio ogni dubbio scompare!

- E scrivere il verbo à con l'accento invece che con l'h, non è più spiccio? Anche componendo in tipografia si mette meno una lettera - mi obbietti ancora.

- Se proprio si fosse tutti d'accordo, per me non ci troverei difficoltà. Soltanto che allora bisognerebbe scrivere: mi ò, ti ti ê, lë o l'à, noiatri émmo, voiatri éi, lö àn. E il passato imperfetto del verbo essere: voiatri ëi si scrive con l'e dieresato. Allora la congiunzione ò si dovrebbe distinguerla dal senso, perché scritta va scritta allo stesso modo pronunziandosi o all'italiana.

Rendémola donque sémplice e sccetta a nostra scrittûa. Còs' ti ne dixi?

- Dobbiamo dunque, ristampando autori del passato, alterar le loro grafie?

- Manco per sogno.

Lasciamo tal e quale essi hanno scritto, persino nella punteggiatura: in tutto. Anche il menomo segno ha il suo valore didattico e storico: dice la personalità dell'uomo e dell'ambiente. Soltanto che noi, oggi, vediamo di accordarci sopra una convenzione facile e unica, per cui non abbiamo più da sentirci atterriti quando pensiamo di prendere la penna in mano per scrivere la nostra bella lingua. Ah, sì! Lingua. Parlata in tutto il mondo. Da Elio Staleno, da Caffaro, da Guglielmo Embriaco, da Tedisio D'Oria. dai Pessagno, da Leon Pancaldo, da Colombo, da Mazzini, da Garibaldi... per dirla con nomi che sono sintesi di generazioni.

Te sàio. A l'antiga.

A.(ntonio) Pastore

Pigiòu da Il Lavoro Sàbbo 20 de frevâ do 1926

(1) Tùtto bén levòu che inta grafîa ofiçiâ o són [O] lóngo o se marca co-i doî pónti: ö.

(2) L'Académia a l'à çernûo a-a revèrsa: ö o sèrve pe-o són [O] lóngo; ô pe-o són [u] lóngo.

(3) Atençión! Inti grùppi de fìn paròlla æn e ænn- a létia æ a l'à o són da [E] cùrta.

(4) Cómme régola generâle saiéiva bén no acentâ mâi un digràmma. Purtròppo bezéugna acentâ o digràmma eu pe marcâ o són [2] lóngo e cùrto. L'Académia a l'à decîzo de métte l'acénto in sciâ prìmma vocâle (e no in sciâ segónda cómme l'é fæto chi): són [2] lóngo: êu; són [2] cùrto: éu.

(5) Ànche chi l'Académia a l'à çernûo diferenteménte: dæto che a létia æ a l'incoménsa pe a s'é decîzo de métte ò no métte l'h cómme pe-a a; pe quésto se scrîve gælo e ciæo.

(6) L'Académia a l'à vosciûo "rimettere in onore l'antico ç zedigliato", cómme o l'à dîto o Pàddre Gàzzo. L'é consentîo, ma no l'é consegiòu, de dêuviâ a s a-o pòsto da ç.

(7) Ànche chi gh'é dôe posciblitæ: l'Académia a l'à çernûo de privilegiâ l'acénto circonflèsso e de lasciâ i doî pónti sôlo in sciâ ö pe-o són [O] lóngo.

(8) L'Académia a l'à decîzo de no dâ a ménte a-i "omografi" perché se e paròlle se dîxan pæge no se capìsce pe cöse vàdan scrîte despæge. Quìndi, pe senplificâ, a l'à çernûo de no dêuviâ a h pe-o vèrbo avéi.

(9) D'acòrdio!

(10) Sta cösa chi a no va bén. In zenéize gh'é i soìn avèrti e seræ, l'é vêa, ma gh'é ascì i soìn lónghi e cùrti: se se scrîve cèo no se màrca o fæto che o son [E] da è o l'é lóngo.

(11) Xenâ o no l'exìste: o saiâ 'n refûso pe Zenâ.

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àn dîto a seu
06/04/2014 - 20:11
ALB, Zêna
A paròlla a no gh'é. De sòlito s'adêuvia "aregòrdo": aregondémmo o poêta (commemoriamo il poeta). Se pöi bezéugna pròpio dî "commemorare" no gh'é nìnte de mâ a dî comemorâ, comemoraçión, comemoratîvo.
06/04/2014 - 08:48
besûgo, lavagna
Bon giôrno. Me poeì dî ûnn-a parolla zenéise ch’a stà pe “commemorativo”, inteïso cômme “rimembranza” “ricordo” “rievocazione”. Grazie
29/10/2008 - 03:03
ALB, Zêna
Ops... corètto!
28/10/2008 - 22:22
Stêva, Zêna
http://www.tuttozena.org/
Eh, eh. L'é ben ben coiozo perché viatri, òu ponto 8, parlæ di "omografi" da letia h... Ma no ve sei acòrti ch'ei scrito "L'Académia ha l'à decîzo" (co-a h!)

Pò-u resto, comme senpre, ei feto in bello travaggio: conprimenti!

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