Il parere di Carlo Randaccio sui vocabolari dell'Olivieri,
del Casaccia e del Paganini
(...) e vengo al Dizionario genovese-italiano che Giuseppe
Olivieri pubblicò nel 1841, intendendo principalmente « all'istruzione dei
giovanetti che attendono allo studio della lingua italiana ».
Egli volle, prima di tutto, riformare l'ortografia genovese allora
in uso, 1° scrivendo u invece di o, ogni volta che la pronunzia
genovese era effettivamente quella dell'u, e per non confondere l'u
genovese o francese con l'italiano, le sovrappose due puntini (per esempio cüxì,
cucire) invece dell'accento circonflesso; 2° scrivendo il dittongo eu con
ortografia francese, cioè senza il suddetto accento; 3° togliendo l'uso, non antico,
di disgiungere alcune sillabe per mezzo d'una lineetta d'unione, per esempio
marscin-na o marscinn-a, schenn-a, modo contrario all'indole della lingua italiana:
gli parve invece più acconcio l'uso dell'h, la quale rappresentasse ora
l'aspirazione, ed ora, per così dire, lo strascico della pronunzia genovese; onde
scrisse marscinha, schenha; 4° in ogni parola in cui la c italiana ha la
pronunzia della s, ponendo questa medesima consonante piuttosto che la
c caudata (ç) onde scrisse bassì e non baçì, serin e non çerin.
Nei miei Cenni su la grammatica genovese ho già data
all'Olivieri piena ragione riguardo al modo di scrivere l'u genovese: or
dirò che egli, anche scrivendo l'eu senza accento, non avea torto: però è
innegabile che, per chi ignora il francese, un segno sovrapposto a cotesto dittongo
indica che si tratta d'una pronunzia speciale, onde giova di conservargli l'accento
circonflesso.
Quanto alla terza proposta dell'Olivieri, essa, invece di schiarire,
oscurava, introducendo la lettera h del tutto estranea all'alfabeto genovese:
ciò però non significa che sia corretto lo scrivere, come si scrive, marscinn-a,
schenn-a. Nella pronunzia genovese non esiste la doppia n, che sarebbe affatto
contraria all'indole dell'idioma, esiste invece nella pronunzia della sillaba finale
na una pausa brevissima tra il suono della n e quello dell'a,
cadendo l'accento tonico su la prima di queste due lettere, onde pronunziasi, per
esempio, campan-a, tan-a, Rosin-a, ed è una stranezza di scrivere queste voci con
due n, che in italiano non hanno, e che punto si sentono nella pronunzia.
Infine, la quarta proposta dell'Olivieri, ancorché corrisponda alla
verità della pronunzia, non è ammissibile: la c caudata compie nel genovese
l'ufficio stesso che nel francese, evita confusioni: scrivendo, per esempio,
sè invece di çè, seia invece di çeia, si confonderebbero se con cielo, sera con
cera. Inoltre la c caudata serve a riavvicinare molte parole alla forma
latina e italiana, come çenie, cenere, çen-a, cena, ecc.
Quanto al merito del dizionario dell'Olivieri, egli stesso rispose
anticipatamente a coloro che lo trovassero « mancante di moltissime voci »
di aver inteso « di dare come un esperimento di dizionario da compiersi e
perfezionarsi, non già un dizionario compiuto e perfetto ». Nondimeno assai
numerosa fu la raccolta di voci genovesi fatta dall'Olivieri, comprese non poche
voci contadinesche: generalmente esatta la corrispondenza italiana: ampie le
spiegazioni, in parecchie delle quali scorgesi quel buon letterato che fu l'autore.
Chi poi consideri la difficoltà di un primo lessico dialettale, dirà con me esser
l'Olivieri assai benemerito dei concittadini suoi, come lo fu dei glottologi
italiani e stranieri, i quali scrissero (un poco imprudentemente) del genovese
idioma, con la sola scorta del vocabolario di lui.
Lavoro di maggior mole fu il Dizionario genovese-italiano,
compilato intorno al 1874 da Giovanni Casaccia, poi ristampato nel 1876,
accresciuto del doppio e quasi tutto rifatto. L'autore dichiarò che per
l'ortografia si attenne « a quella adottata dal compianto nostro poeta
Piaggio, siccome la più semplice, la più chiara, la più corretta, facendo però
in essa alcune piccole variazioni atte a facilitare la pronunzia del nostro
dialetto, come si vedrà negli avvertimenti grammaticali premessi all'opera »,
e a proposito di questa dichiarazione io mi riferisco alle osservazioni già fatte.
Noterò poi come il Casaccia abbia comprese nel Dizionario genovese
moltissime voci prette italiane, che si usano oggi e s'intendono dai Genovesi còlti,
appunto perché l'invasione dell'italiano, temuta dal Foglietta e dal Cavalli, è
avvenuta e sempre più si dilata, ma ciò non toglie che quelle voci non abbiano
appartenuto mai al genovese idioma, e che non gli appartengano neppur oggi. Cito
le sole voci registrate dal Casaccia al principio della lettera A:
abbattimento, abbellimento, abbigliamento, abboccamento, abito, abitudine,
acciacco, accompagnamento, accordo, ecc. Con questo metodo, la maggior parte del
vocabolario italiano passar potrebbe nel genovese, togliendo solamente il re
ai verbi, e facendo finire in ou le terminazioni in ato, in
ito, e via di seguito.
Così l'autore ha, con savio intendimento, registrato « le frasi,
i modi figurati, i motti, le sentenze, i proverbi, gli sbeffamenti, i dettati
popolari », ma non si è ristretto ai soli originali genovesi, bensì notò modi
e proverbi affatto italiani, traducendoli in genovese, L'autore inoltre registrò
i termini tecnici e volgari delle scienze, arti e mestieri, e fece opera utilissima:
questa però gli riuscì troppo imperfetta riguardo all'arte tanto importante per
i Genovesi, la nautica: non conobbe infatti che l'antiquato dizionario di marina
dello Stratico.
Sfuggirono invece al Casaccia molte voci vere genovesi, e, cosa
strana, anche molti avverbi, per esempio:
ancon, ancon d'assè, attornio (d'), ça (qua), desparte (in)
donde, dove, là, mai, meno, troppo, unde, ecc.
altri registrò male, per esempio:
fin per fin-a
(fin-a lì) |
sotto per de sutta |
segûo » de segùu |
spesso » de spessu |
Delle voci plebee e contadinesche, che non sono barbarismi o idiotismi,
ma conservano per la massima parte il linguaggio genovese parlato sino alla fine
del secolo XVIII, il linguaggio del Foglietta, del Cavalli, del De Franchi,
pochissime registrò, nemmeno quel dunca che si sentiva tuttodì suonare all'orecchio
e che se oggi è voce plebea, appartenne per lungo tempo all'aristocrazia: senza
aggiungere che, filologicamente, il dunca, se, come sembra certo, viene dal latino
tunc (Diez) o da ad hunc (Muratori) sarebbe voce più pura, come il francese donc e
lo spagnuolo doncas, dell'italiano dunque che, per verità, fu anticamente pronunziato
dunche e dunqua.
Nel dizionario del Casaccia vi ha impertanto del superfluo, e manca
una parte del necessario, ma guardando all'insieme dell'opera, all'ampia e faticosa
raccolta fattavi delle voci tecniche genovesi, alle molte frasi, ai molti proverbi
e motti genovesi che vi si trovano registrati, giusto è dire che è un buono ed
utile dizionario che l'autore potrà con facilità migliorare.
Onorevole ricordo merita pure il Vocabolario domestico genovese
italiano, pubblicato in Genova nel 1857 da Angelo Paganini, diligente ed
esatta raccolta delle voci d'uso domestico, in cui seguì l'ortografia dell'Olivieri.
Particolarmente utile l'Appendice zoologica.
(...)
Pigiòu da Carlo Randaccio,
Dell'idioma e della letteratura genovese, Roma, 1894. |