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IL SECOLO XIX
29 mazzu 2001



Pe referensa:
Clicæ chí pe leze l'artícculu d'u Magister ou quæ u Sécculu XIX u fa riferimentu
Clicæ chí pe savéi perché l'é sbaliòu quellu che gh'é scritu int'u dépliant d'a Pruvincia (e int'a gramáttica d'u pruf. Toso) á prupòxxitu d'a prunúnsia d'a "e" seguîa da cunsunante nazale.

la POLEMICA
Dal Canada via Internet
bacchettate ai maestri di "zeneize"


Un articolo sul Secolo XIX e un depliant della Provincia al centro di una dotta disquisizione in rete. Protagonisti un giovane genovese che vive in Canada e altri studiosi di dialetto.

Tutto comincia da una parola - mampâ - che alla fine assumerà il sapore di una metafora.
Un martedì ne scrive sul Secolo XIX Vito Elio Petrucci e racconta che «erano quei grandi rettangoli di tela bianca, tenuti tesi da una cornice di legno, grandi come la finestra, che venivano poggiati sul davanzale e aperti, spinti in avanti dalla parte alta, in modo che potessero catturare la poca luce che scendeva nel vicolo e rifletterla nella stanza». Solo ai genovesi che parlavano il genovese poteva venire in mente un’idea così per sfruttare la luce del giorno fino all’ultimo bagliore.
Passano poche ore e su quel piccolo articolo, al giornale, arriva una e-mail da Niagara Falls, Canada, la città che si trova dall’altra parte delle cascate da cui Marilyn, nel film, meditava di buttare giù il marito. Il mittente ha trent’anni, si firma con uno pseudonimo, Conrad Monpetit. Non ha scritto solo a noi. Gli altri destinatari fanno parte di un gruppo di discussione sul dialetto che si tiene in contatto di qua e di là dall’oceano. La lettera contiene due allegati: uno è l’articolo di Petrucci, riprodotto dal giornale; l’altro è una disquisizione sullo stesso articolo - e su un pieghevole stampato dalla Provincia per propagandare il genovese - a firma di Magister, che evidentemente abita a Genova.
Il dépliant, probabilmente con ragione, viene fatto letteralmente a pezzi («E noi paghiamo i contributi alla Provincia che paga gli "esperti"».)
Quanto a noi, sembra che abbiamo commesso almeno due errori:
Il primo: il plurale di "mampâ" non è "mampâ"; è regolare e si scrive con il dittongo "mampæ", cioé /maN’pE:/. (In alfabeto fonetico, viene precisato, /E/ indica il timbro aperto della vocale “e”.).
Il secondo: il plurale non è maschile, ma femminile.
Magister, sconsolato, si chiede e chiede all’amico perché non ci siamo presi la pena di aprire un vocabolario. E, citando l’origine della parola dialettale, che deriva dallo spagnolo "mampara" (in italiano, "paravento"), conclude con amara ironia: se questo è il livello di tutela di cui gode il genovese, allora «meteighe a mampâ», «espressione che veniva riferita ai moribondi che abbandonavano questa vita nei cameroni dell’ospedale di Pammatone, per cui i loro cari domandavano un minimo di dignità nel momento supremo dell’agonia e la cessazione di ogni inutile accanimento terapeutico». Come dire: lasciamo che si spenga la nostra vecchia lingua, piuttosto che farne scempio.
È una metafora fondata?
Davvero il dialetto ha molto più di un piede nella fossa, o c’è ancora speranza?
Certo, nelle case di Genova non si parla più il genovese e forse lo parlava poco anche la generazione prima di questa. Ma se tra i giovani - perché dal contesto si capisce che Magister è giovane - esistono persone che hanno la forza di indignarsi così autenticamente per queste cose e lo fanno in una lettera che non era destinata a finire su un giornale, probabilmente qualche speranza c’è ancora.
Anche Conrad Monpetit, naturalizzato canadese, che di là dall’oceano ha scritto al Secolo XIX e ha reso pubblico l’appello lanciato al gruppo di discussione, è giovane. Per quanto sembri incredibile, da Niagara Falls ha creato il sito forse più completo sul genovese che esista in Rete: un’opera colossale, quasi maniacale - sia detto senza offesa - come è la maggior parte delle cose fatte solo per passione. Perché? Perché, scrive, «Quellu pocu de zeneize ch’ho mâi arrecyggeitu, u sentiva parlà dai mæ messiavi quand’ea yn figgettin de 3 anni: ma quande mâi s’è vistu un pòppulu duve i nevetti pàrlan ynna léngua differente dai so messiavi? [...] Atrimenti l’ecu d’e belle filastrocche, ch’a mæ madunnaa a me cantava quand’ea piccin, a se perdià intu vœu e nisciyn u saià mâi ciy in cundissiun ni de ripétile e ni d’accapile».
Su Internet succede anche questo quando il futuro guarda il passato.

Marco Giacobbe
giacobbe@ilsecoloxix.it

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