2 novembre 2001
È da molto tempo, ormai, che la lingua letteraria/urbana genovese non vive giorni felici. Abbiamo, temporalmente, alle nostre spalle, un recentissimo passato in cui il discredito nei suoi confronti era forte, scontato, radicato, ormai in tutte le classsi sociali, tale da interromperne la plurisecolare trasmissione diretta. E le lingue, senza trasmissione diretta e l'ambiente che essa, come conseguenza, crea, non sopravvivono. Possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Ne varia la nostra percezione. La realtà resta. Si ribadisce, però, che, anche, all'epoca del discredito sociale sopra ricordato e dell'allontanamento dei parlanti dalla lingua , il genovese, se pure perseguitato, era riconoscuito come tale, dotato di proprie e caratteristiche individualità ed identità, ben note, chiare e specifiche, che nessuno metteva in dubbio, anche se ritenute socialmente inadatte, inferiori. Non si ritiene esagerata la definizione di persecuzione, anche se, in altre zone dell'Europa e del mondo, il fenomeno, storicamente, ha assunto aspetti piú radicali. Non si sta descrivendo la preistoria ... Si sta semplicemente riferendo ciò che è avvenuto a Genova fino ad alcuni anni or sono ... Essa, all'inizio, venne esattamente avvertita come tale, poi, proprio come effetto indotto della persecuzione stessa e del senso di allontanamento dal genovese che, inevitabilmente, si generò, anche la sua percezione risultò attenuata. I livelli di ostracismo e discredito si affermarono capillarmente, si instaurarono all'interno delle famiglie, causarono la decisione netta e irrevocabile dei genitori di non trasmettere la lingua ai figli, fino a richiedere che essa non venisse parlata in loro presenza non solo dai membri della famiglia, ma anche da eventuali domestiche etc... Si originò cioè una vera e propria censura da parte degli altri membri della famiglia ovvero un'autocensura da parte di chi avrebbe ancora avuto intenzione di continuare ad avvalersi del genovese come valido veicolo di comunicazione. Però all'epoca nessuno poneva in dubbio o tentava di alterare l'essenza della lingua e la relativa descrizione. Se mai, il tentativo era di somministarle l'eutanasia piú dolce possibile mediante un'italianizzazione sempre piú efficace e pervasiva. Che cosa, invece, in sostanza, caratterizza la fase attuale della lingua ? Tre fatti fondamentali:
All'estero, prima ancora che da noi. Ma, a Genova, a questa situazione, già pesantemente pregiudicata, si è aggiunto un problema ulteriore (come se non ce ne fossero a sufficienza !): la proposta del "similgenovese"... (apparentemente anche con l'avallo di istituzioni preposte, da cui ci si aspetta, in primis, e si auspica la tutela e la promozione della lingua storica, letteraria urbana). Il problema è, nel caso di Genova, certamente grave ed implica una responsabilità di fronte alla storia ed alla scienza. È troppo ovvio che ognuno è libero di creare la lingua che ritiene ed è, certamente, altrettanto libero di comporre in questa lingua. Ciò di cui non si è affatto convinti è che sia corretto attribuire a questa nuova creazione il nobile nome di una lingua, malgrado tutto e tutti, ancora storicamente ed oggettivamente esistente. Si è convinti che anche la lingua, sia pure ormai significativamente minoritaria, debba essere tutelata nella propria identità ed integrità, e non solo il basilico. Non è ammissibile appropriarsi della sua denominazione per somministrare altro. La scorrettezza, storica e scientifica, si fa ancora piú acuta quando si utilizza una grafia incongrua, cioè non compatibile con quelle di tipologia tradizionale (né con la fonologia della lingua), per riproporre le opere del passato.
Si producono, cosí, edizioni filologicamente scorrette. Chen e scæn: due origini diverse Prima di tutto tentiamo di fare un po' di chiarezza relativamente a due fenomeni linguistici che hanno origini diverse e che si sono verificati cronologicamente a grande distanza temporale: il prof. Fiorenzo Toso nella sua opera "Storia linguistica della Liguria, vol. 1, Dalle origini al 1528" definisce questa tipologia di plurali come "plurali metatetici" (aggettivo di utilizzo specialistico che indica la derivazione di questo tipo di plurali dal fenomeno linguistico definito metatesi). Si tratta di una parola greca che significa spostamento e, nei casi dei plurali in esame, si riferisce allo spostamento della vocale -i del plurale dalla posizione originaria in finale di parola (dove è rimasta nell'italiano standard) all'interno della parola stessa, generando cosi le forme "cain", "sain" etc... Relativamente al fenomeno linguistico della metatesi ed alle sue successive evoluzioni il testo del Toso fa riferimento ad un articolo del Forner (vedi riquadro). Il Forner dimostra, in sostanza, come, a partire dall'originaria forma "cain", per chiusura del dittongo -ai-, si sia pervenuti all'attuale forma "chen". E questo per quanto riguarda l'origine del fenomeno. Ma il prof. Toso, sempre nello stesso passaggio della sua opera, fornisce anche informazioni di tipo cronologico e dice che questo tipo di plurali metatetici si affermano a Genova nel XV secolo, cioè nel Quattrocento.
L'origine di quest'altro fenomeno linguistico va ricercata nella caduta urbana di "r" intervocalica che ha originato "scæn", "Mænn-a", "fænn-a", dagli originari "scarin" /Ska'RiN/, "farinna" /fa'RiNna/, "Marinna" /ma'RiNna/. Bene, sempre il prof. Toso, in un'opera edita nell'anno 1996 da "A Compagna" ed il cui titolo è "Trionfo dro popolo zeneise", alla pag.24 afferma che la "r" tra vocali è "scomparsa definitivamente dalla pronuncia in maniera generalizzata solo agli inizi del secolo XIX." cioè agli inizi dell'Ottocento. (Evidentemente, il prof. Toso si riferisce, nel passaggio citato, alla pronuncia urbana, dal momento che, al di fuori dell'ambito urbano, la Liguria presenta ancora zone a pronuncia arcaica, dotate di "r" intervocalica conservata). In definitiva, quindi, ci si trova di fronte a
Al contrario, nel fenomeno storicamente piú recente, che ha originato le forme attuali "scæn", "Mænn-a" e "fænn-a" dalle rispettive forme antiche "scarin" /Ska'RiN/, "farinna" /fa'RiNna/, "Marinna" /ma'RiNna/, il dittongo /aj/, generato a partire dalla caduta di /R/ intervocalica, è riuscito a monottongarsi, a divenire cioè un solo timbro vocalico (una vocale sola che è una /E/ aperta e breve), ma non ha ancora chiuso il timbro della vocale /E/, che è rimasta aperta, per eccezione e ha richiesto alle grafie di tipologia tradizionale l'adozione del digramma "æ"
La riprova ulteriore che le grafie di tipo tradizionale adottarono il digramma "æ" per denotare l'eccezionalitá della pronuncia aperta, laddove la norma generale implica e richiede pronuncia chiusa (e non giá per reminiscenza dell'antico dittongo -ai) consiste nel fatto che le grafie tradizionali utilizzano la semplice vocale "e" (e non giá il digramma "æ") in tutti i casi quali "chen", "sen", "paisen" etc... in cui l'origine storica consisteva sí in un dittongo, ma in cui la pronuncia era regolarmente chiusa e non necessitava di un'esplicita indicazione di irregolaritá rispetto alla norma del linguaggio letterario/urbano. La grafia "in cæn" L'innovazione di grafare "cæn" per "chen", come prescritto dal prof. Toso nella sua "Grammatica del genovese" (vedi riquadro), è immotivata e scorretta, dal momento che essa apparentemente unifica due fenomeni linguistici ben distinti (geneticamente e cronologicamente), e falsa la realtá fonetica oggettiva della lingua letteraria/urbana genovese, la quale ha sempre tenuto accuratamente distinte le due serie: Anche l'eventuale ipotesi che la grafia "cæn" possa risultare una forma mutuata da una variante linguistica non urbana, che tenesse ancora in qualche modo memoria, tramite una pronuncia di /E/ aperta, del dittongo originario, risulta essere palesemente contraddetta dalla stessa grammatica del prof. Toso che prescrive che la "e" sia pronunciata sempre aperta davanti ad "n", anche laddove non c'è mai stato nessun dittongo (!!!), cioè anche in parole come "fen" (=it. fieno) e "ben" (=it. bene). Tutto ciò palesemente in contrasto con la lingua letteraria/urbana genovese, le testimonianze degli autori, tra cui quelle del Parodi e del Casaccia (vedi riquadro), e le verifiche che ognuno puo effettuare (con poco sforzo) presso i parlanti della varietá letteraria/urbana.
Quindi se c'è stata ispirazione ad una varietá linguistica dotata di pronunce aperte quali /'fEN/, /'bEN/ etc. , non c'è motivo di attribuire a codesta varietá linguistica nessuna sensibilitá differenziale rispetto ad un antico dittongo, perché questa sensibilitá semplicemente non esiste. Si tratterebbe, infatti, semplicemente di una varietá linguistica che pronuncia aperta la vocale "e" davanti a consonante nasale. E ciò indipendentemente dall'origine della vocale. E, quindi, se si dovesse assumere come valida questa nuova norma (e non se ne comprende davvero la ragione) che prescrive di pronunciare tanto "cæn" che "ben" con la vocale /E/ aperta (il che, si badi, a Genova è scorretto), allora non si vede perché "cæn" e "ben" dovrebbero essere grafati in modo diverso. Perché allora oltre a "cæn" non scrivere anche Il vero problema si presenta se ci si allontana dalla lingua letteraria/urbana, che possiede una tradizione scritta, in tutte le sue evoluzioni, anche recenti, dalla quale si puo desumere con chiarezza anche la relativa pronuncia (questo a patto di esercitare un minimo sforzo di corretta ed affidabile interpretazione). Perché mai si dovrebbe ripudiare la certezza (si oserebbe dire scientifica) della tradizione della lingua letteraria ed adottare norme soggettive? Per accogliere quale standard relativo a quale parlata? Su quali basi scientifiche, statistiche? Forse perché "cæn" /kEN/ fa parte della parlata di chi formula la prescrizione? E allora perché anche chi si adegua alle prescrizioni della grafia "in cæn", mantiene però immutata la propria pronuncia con la "e" chiusa, che si puó, essendo interessati, ascoltare registrata anche sul Web? Ma, allora chi pronuncia le vocali "e" toniche aperte (e questa tipologia di pronuncia certamente esiste e possiede le proprie aree di diffusione, anche se non puo essere definita né letteraria né urbana) e dice "baccættu", "briccættu", anzi meglio, "bacættu", "bricættu" etc... dovrebbe godere di minore considerazione di chi intende invece prescrivere pronunce del tipo "cæn", "bæn", "væntu", "terræn", "ma se ghe pænsu" etc... molto probabilmente perché non ha mai scritto né mai scriverá una grammatica? Per quale ragione mai? Evidentemente la non-letteraria e non-urbana pronuncia "bacættu", "bricættu" (invece di "bachettu" /ba'kettu/ = it. bastoncino e "brichettu" /bri'kettu/ = it. fiammifero) non può valere meno della non-letteraria e non-urbana pronuncia "cæn", "bæn", "væntu", "terræn", "ma se ghe pænsu" etc... L'aspetto ci condurrebbe assai lontano e dovrebbe necessariamente includere il tema della scarsa conoscenza della lingua ligure nel suo complesso. Quando, tempo addietro, si sarebbe potuta riscontrare abbondanza di informatori genuini ed affidabili, non vennero effettuati - siamo sinceri - ricerche esaustive su tutto il territorio. Oggi - cerchiamo di essere altrettanto sinceri - esistono fondati dubbi, data la globale decadenza della lingua (non solo in ambito urbano) e l'evidente difficoltá che si riscontra a coglierne gli aspetti strutturali, sull'affidabilitá degli informatori e di eventuali ricercatori. Se, poi, invece, si ritorna a considerare una lingua non piú effettivamente parlata, ma ridotta ad una lingua di fiction o "da sussidi", il discorso cambia ancora.
Il caso del "Trionfo dro popolo zeneise" Si conclude a questo punto l'argomento generale e si prende in considerazione, in pratica, una situazione puntuale in cui è stata adottata la grafia "in cæn". Ciò allo scopo di potersi rendere direttamente conto di quanto questa scelta grafica falsi il testo tramandato e di come renda in modo infedele la realtá della lingua letteraria relativamente agli aspetti finora esaminati. Si procederá esaminando coppie di versi presenti nel volume citato "Trionfo dro popolo zeneise" edito nel 1996 da "a Compagna" a cura del prof. Toso utilizzando la grafia "in cæn". Si tratta di versi tradizionali, cioè rimati, e anche l'aspetto della rima aiuterá a meglio comprendere l'inadeguatezza e l'infedeltá della grafia proposta per rappresentare la lingua letteraria/urbana. Si avverte che le coppie di versi vengono proposte secondo l'esposizione logica che si intende perseguire e non nel loro ordine consecutivo. Le coppie di versi presi in considerazione sono le seguenti: versi 1165-1166: Per contrastaghe un parmo de terren Giá questa coppia di versi denuncia, a motivo della mancata rima, l'incongruenza e la scorrettezza della grafia di cui si tratta ai fini della descrizione della lingua genovese letteraria/urbana. Infatti, "paisæn", che implicherebbe, se cosí grafato, la pronuncia di /E/ aperta (mentre l'ha chiusa), non può rimare con "terren", che si pronuncia con l'/e/ chiusa, esattamente come nell'italiano standard. Per altro, non ci si stanca di ribadirlo, la pronuncia genovese letteraria corretta e /paj'zeN/, con la /e/ chiusa. versi 223-224: Ommi e donne ammasson, marotti e sæn.
Questa coppia di versi è apparentemente consistente, perché fa rimare "cæn" con "sæn", ma la tragicitá della scena che il poeta, forse non sublime, ma certamente patriota, intende evocare, è guastata dalla risibilitá, per un orecchio urbano, di pronunce quali "cæn" /'kEN/ e "sæn" /'sEN/ , con le /E/ aperte. E, infatti, la pronuncia letteraria/urbana prevede "chen" /'keN/ e "sen" /'seN/ con le /e/ chiuse. versi 443-444: De San Steva afferron ri grosci poæn
Esattamente la stessa situazione della coppia di versi precedente: anche qui "Portoriæn" è in realtá "Portorien" (con la /e/ chiusa), e la pronuncia nonché la grafia classica del plurale di "pan" é "poen" /'pweN/, sempre con la /e/ chiusa, ovviamente. versi 1101-1102: Dra giustiçia raxon rotto ro fren,
Qui risalta l'anomalia della parola "Allemæn" (forma aulica per "Tedeschi" ) che ovviamente non può rimare con "fren".
"Alleman" non è e non era una parola dell'uso comune, si direbbe e si sarebbe detto
"Tedescu", ma dovendola pronunciare al plurale si avrebbe certamente "Allemen"
/alle'meN/ con la /e/ chiusa.
Il caso rappresentato dalla sopraccitata edizione del "Trionfo dro popolo zeneise", per altro, non risulta certamente uno dei peggiori. Infatti, nonostante risulti utilizzata (come ampiamente dimostrato) una grafia scorretta e inadeguata rispetto all'obiettivo di trascrizione della lingua genovese letteraria, se non altro, nelle note viene quasi sempre riportata la grafia originale con le tutte le desinenze in -en anziché -æn (paisen/terren, chen/sen, Portorien/poen, Allemen/fren) dalle quali si puo ancora desumere che la pronuncia corretta prevedeva e prevede vocali /e/ chiuse. Dunque, un esame attento di questo apparato di note riesce ancora a svelare la contraddizione e l'inconsistenza della grafia adottata,
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