ovvero, l’impossibilità di potere, ormai, ascoltare; la necessità, ormai imprescindibile, di sapere, almeno, leggere Conrad chiede informazioni sulla pronuncia di “matœiçu” /ma’tøjsu/ = “pazzerello”, termine che veniva utilizzato con significato benevolo, scherzoso e che è riportato nell'edizione del dizionario Casaccia con la grafia “matteûsso”. Credo avesse già domandato ed io me ne fossi dimenticato. Cosí come non ritenni di riportare “matœiçu” /ma’tøjsu/ nell’articolo dedicato alla grafia del Casaccia (clicca qui) quale ulteriore esempio del dittongo /øj/, perché i riferimenti citati nell’articolo e le relative spiegazioni mi parvero sufficienti. Ovviamente, l’onestà personale di testimone impone di riferire a Conrad - ed a chi potesse risultarne interessato - che la voce “matœiçu” /ma’tøjsu/ s’è, ormai, spenta e che risulta interessante, a quanto mi viene riferito, il tentativo di “ricostruirla” - ma, in modo sbagliato! - a partire dalla grafia. Ma, procediamo con ordine. Ad un numero, ormai ridottissimo, di ultraottantenni di effettiva origine cittadina è ancora nota la parola “matœiçu” /ma’tøjsu/, anche se, con ottima probabilità, nessuno, nemmeno piú di loro, l’usa piú nel linguaggio abituale. Ma, se non si dispone di fonti cosí attendibili, preziose e rare, occorre rifarsi ai documenti scritti. Ma in modo corretto! Esaminiamo, quindi, quanto scrive il Casaccia nelle sue "Osservazioni intorno all'ortografia genovese" alla pag.3 dell’edizione del 1876 del suo vocabolario, riportato in forma quasi identica anche nel suo “Trattato d’ortografia genovese” (edito postumo nel 1887) e che ha già costituito il contenuto di un nostro recente articolo (clicca qui), dove viene sinteticamente, ma inequivocabilmente definita e chiarita la grafia adottata dall’autore - che, poi, noi possiamo condividere o no -. Le parole del testo contenuto nel vocabolario del Casaccia sono: “êu, che, per distinguere dal dittongo proprio eû, accentuato sull’u, come in peûxo, beûlo, ecc., si scrive coll’accento circonflesso sull’e, si pronuncia allo stesso modo che i Francesi nelle parole feu, peu, heureux, cosí fêugo, fuoco, lêugo, luogo, dêutta, dote, ecc.”. In pillole, secondo il Casaccia “êu” indica la vocale /ø/ od /ø:/, cioè, sia breve sia lunga, proprio come in /’fø:gu/ = “fuoco” e /’lø:gu/ = “luogo ... ed altro ...” - vocale /ø:/ lunga - o in /’døtta/ = “dote” ( vocale /ø/ breve ). Quindi, in conformità alla grafia del Casaccia “êu” rappresenta una semplice vocale, che altro non è se non la “versione labializzata” della vocale /e/, assente nell’inventario dei “fonemi (suoni)” dell’italiano standard, ma ben presente in genovese ed in molte altre lingue, anche italiane. Invece “eû”, nella grafia adottata dal Casaccia nel suo vocabolario, rappresenta un DITTONGO, non una semplice vocale e, precisamente, il dittongo /øj/, che si può riscontrare in parole quali "pœixu" /’pøjZu/ = “bilico”, "bœilu" /’bøjlu/ = “baule”, "matœiçu" /ma’tøjsu/ = “pazzerello” etc... La vocale /ø/ è grafata “êu” tanto nelle "Osservazioni ..." che nel "Trattato ..." mentre il dittongo /øj/ è grafato “eû” nelle "Osservazioni ..." ed “eu” nel "Trattato ...", senza l'accento circonflesso sull'u. Perciò, se il Casaccia, nel suo vocabolario, grafa “matteûsso” - in cui l’accento circonflesso è posto sull’u e non sull’e -, egli non poteva che intendere /ma’tøjsu/ e noi, se non vogliamo derogare dalla comprensione dell’intelligenza e dalla ragionevolezza, non possiamo che desumere /ma’tøjsu/ per quanto concerne il dittongo in oggetto, mentre non merita prestare attenzione - al solito - ai raddoppiamenti consonantici - “tt” ed “ss” - “all’italiana”, che non possiedono, ovviamente, alcun valore fonetico, al di là di una discutibile motivazione etimologica. Per quanto concerne l’inutilità - già all’epoca del Casaccia - di raddoppiamenti grafici - etimologici o pseudo-tali - che non corrispondevano e non corrispondono, comunque, alla realtà della lingua ed alla loro pericolosità nell’epoca attuale - in cui i cultori li assumono per validi -, è interessante sfogliare la prima edizione del vocabolario del Casaccia, quella del 1851. Sotto certi aspetti, meno riveduta, ma, talora, piú diretta, piú immediata, piú trasparente. Alla pag.302 - nella colonna di destra - dell’edizione del vocabolario del Casaccia del 1851, si può tranquillamente leggere “matteûso”, cioè /ma’tøjsu”/, prova evidente che il Casaccia - già nel 1851 - indicava la pronuncia del dittongo /øj/ e, chiaramente, non pronunciava e non “sentiva” nessuna “s” doppia successiva ad un dittongo - come è norma della struttura fonetica della lingua genovese e come avviene, del resto, anche a seguito di vocale lunga -. Evidentemente, la doppia “t” che si riscontra anche nell’edizione del vocabolario del 1851 non è altro che un inutile omaggio alla grafia italiana - l’unica veramente padroneggiata dal Casaccia e da chi, alla sua epoca, a Genova, sapeva leggere, scrivere e far di conto - in definitiva, non, poi, cosí tanti ! -. Le consonanti protoniche, quelle, cioè, che precedono la sillaba accentata della parola, hanno, nel genovese, pronuncia scempia e non esiste alcuna giustificazione fonetica valida per “grafarle” doppie. Per altro, se il Casaccia avesse inteso rappresentare graficamente /ma’tøssu/ - inesistente e privo di significato in genovese - , avrebbe scritto “mattêusso”, cioè, coll’accento circonflesso sull’e, mentre egli l’ha posto sulla vocale u . Infatti, il Casaccia ha scritto e fatto stampare “matteûsso” e non può che avere inteso proporre /ma’tøjsu/ = “pazzerello” e non altro. Su quanto illustrato e chiarito non possono sussistere dubbi, perché siamo ancora in grado di usufruire, come riportato in precedenza, di quella che gli avvocati definiscono “interpretazione autentica”. L’autore, cioè, spiega se stesso. Piú di cosí ... Proseguire sarebbe, in realtà, dopo quanto esposto, superfluo. Comunque, si possono riscontrare ulteriori conferme. Per non tediare inutilmente chi legge si riferirà quanto affermato dal Parodi nei suoi “Studj liguri”. Perché s’è scelto il Parodi? Perché il Parodi esordisce, alla pag.107 del §3 - “Il dialetto moderno di Genova” - della sua opera intitolata “Studj liguri”, scrivendo: “... di solito [i vocabolarii della lingua] si citano soltanto se di qualche vocabolo non abbia io stesso cognizione diretta. Pel dialetto vivo, la mia fonte principalissima è l’uso mio e della mia famiglia; ...”. Non sappiamo, oggigiorno, quanti studiosi o cultori potrebbero anche solo ripetere la stessa semplicissima affermazione. Alla pag.125 §54 dell’opera del Parodi citata, viene riportata la trascrizione che, convertita nell'alfabeto fonetico SAMPA, risulta essere /ma’tøjsu/ - che il Parodi fa correttamente derivare dall’anteriore (cioè, piú antico) /mata’Ryssu/ = “pazzerello”. Si ottiene, quindi, una conferma totale di quanto proposto dal Casaccia mediante la grafia “eû” che, si ribadisce ancora, secondo la grafia adottata dal Casaccia rappresenta il dittongo /øj/ e non la vocale /ø/ come in "nœtte", che il Casaccia, per distinguere, grafa, invece, “nêutte”, cioè, coll’accento circonflesso sull’e. E tutti gli esempi che si possono riscontrare nel Parodi collimano perfettamente con quanto grafato dal Casaccia e inversamente.
Si noti che “reûtâ” e “reûto” sono ben distinti graficamente dalla voce immediatamente successiva nella stessa colonna del vocabolario e che è grafata “rêuza”= “rosa”, cioè "rœza" /’rø:za/, parola certamente priva di alcun dittongo (!), ma solamente dotata di vocale /ø:/ tonica lunga. La stessa identica distinzione grafica tra “reûtâ” /røj’ta:/, “reûto” /’røjtu/ ed invece “rêuza” si può anche riscontrare nell’edizione del Casaccia del 1851 - pag.450, colonna di sinistra -. Quale ulteriore evidenza, si può riferire - per chi non sia puritanamente “vittoriano” - che, tuttora, nell’italiano locale o “gergale” - se si preferisce - di Genova, si usa - non certo in uno stile “principesco” - definire “roito” /’rOjto/ - /‘rOjtO/ una fanciulla di scarso appeal. Un ciospo. Letteralmente - da "rœitu" /’røjtu/ = “rutto” - tale da “mette angúscia” ... Si cita, ancora, ma a puro titolo di ulteriore verifica della totale concordanza tra i due autori - il Casaccia ed il Parodi - , la forma /’røjdu/, riportata dal Parodi - op. cit. - alla pag.116 §21 e dal Casaccia - sempre nella colonna di sinistra della pag.650 dell’edizione del 1876 del suo vocabolario - quale “reûdo” /’røjdu/, sebbene, tuttora - come ai tempi del Casaccia - la parola risulti estranea all’uso dell’ambiente propriamente urbano. Il significato di “rœidu” /’røjdu/ è, letteralmente, “rigido”, ma la parola può anche valere per “intirizzito”. In città, oggigiorno, i veri genovesi usano “reddenu” /’reddenu/ per “rigido” ed “abeçîu” /abe’si:u/ per “intirizzito”. La “versione” /,matte’yssu/ di cui mi riferisce Conrad è pura “fiction” e non può altro che essere stata ricostruita scorrettamente a partire dalla grafia del vocabolario, senza tenere in alcun conto la convenzione grafica adottata e chiaramente illustrata dall’autore stesso prima dell’elenco delle parole della lingua incluse nel suo dizionario. A parte il fatto che nessuno la conosce né la pronuncia, essa, al piú, potrebbe appartenere ad un ipotetico “genoviano” o “italiese”, dato che: Cosí è (che piaccia o no) ! MAGISTER 9/12/2002
|