U se riflescîvu
U tèrmine "çediggia", it. cediglia, u vêgne dou spagnollu zedilla, sàiva à dî "zitta picinn-a", e u l'êa u numme de quellu ségnu che 'nt'e léngue rumanse antîghe se metéiva sutt'aa léttia "c" pe indicâ ch'a se duvéiva prununsiâ cumme 'na "zitta àspia" (o surda, /ts/). In zeneize, cuu pasâ d'i sécculi questu sun u s'é evulŷu inte'na "esse àspia" (o surda, /s/, ez. "çitæ"), ma a grafîa etimulòggica d'a "ç" a l'é arestaa.
D'e votte, però, a vêgne dœviaa à sprupòxxitu, cumme 'nt'u câxu d'u prunumme riflescîvu de primma persunn-a plyrâle (niâtri se lavemmu), che, segundu a "Grammatica del genovese" d'u pruf. Fiorenzo Toso se duviéiva scrive cuâ "ç" (pag.97 n.38: [niâtri] çe lavemmo).
Questa a l'é sûlu 'na grafîa italianizante e u Magister u ne dîxe perché:
"Se" nel significato riflessivo della prima persona plurale del "ci/ce" italiano, nel significato di "noi", non va scritto con la cediglia.
Il "ci/ce" dell'italiano standard ha origine da una stessa parola ed ha assunto un significato locativo (avverbiale) e uno pronominale relativo alla prima persona plurale (noi, appunto).
Non tratto l'etimologia di "ci/ce", lasciandola agli esperti.
Il "ci/ce" locativo è, in genovese, "ghe" /'ge/ e non vi sono dubbi di sorta.
Si dice "ghe n'é" /'ge n 'e/, "nu ghe semmu" /'nu 'ge 'semmu/ etc.
Il "ci/ce" pronominale, ma non nell'accezione riflessiva della prima persona plurale (noi), è "ne" /'ne/, altrettanto sicuramente.
Si dice, infatti, "ne ciàmman" /'ne 'tSammaN/ (it. ci chiamano), "a ne zbraggia" /a 'ne 'zbraddZa/ (it. ci sgrida) etc.
Il "ci/ce" riflessivo riferito alla prima persona plurale (noi), in genovese è stato sostituito dal riflessivo della terza persona, singolare e plurale, "se" (it. si), come in moltissime altre zone e in moltissime altre lingue d'Italia: il fiorentino fa eccezione, ma le zone di "frontiera" della Toscana già incominciano a conoscere il fenomeno.
È sufficiente, per comprendere, prestare attenzione, ad esempio, al romanesco, tanto divulgato dai media: in romanesco (e, per la verità, in una miriade di linguaggi italiani) si dice, infatti, "se lavamo" /se la'va:mo/, "se vedemo" /se ve'demo/, per "arrivederci", e "se n'annamo" /se n an'na:mo/ etc.
Analogamente, a Genova (e non solo) si disse e si dice "se lavemmu" /'se la'vemmu/, "se vedemmu" /'se ve'demmu/ e "se n'anemmu" /'se n a'nemmu/, che, letteralmente, andrebbero tradotti come "si laviamo" etc., traduzioni che, finché è esistita l'ignoranza degli ignoranti e non, si badi bene, il nostro oblio della nostra identità, della nostra specificità e della nostra lingua si potevano ancora cogliere, come si direbbe con linguaggio ottocentesco, sulla bocca del popolo.
Ma questo "se" NON È il "ci/ce" delle grammatiche italiane.
È l'antichissimo e nobilissimo "se" dei nostri progenitori latini, da cui il genovese deriva in retta linea, che ha incontrato, chissà quante volte, chi abbia effettuato studi liceali o abbia frequentato le antiche medie in cui si insegnava il latino.
Nel genovese antico è stato grafato "ç" ciò che derivava dal fonema di "c" affricata palatale (/tS/) presente, ad esempio, nella parola "cento". Esso, in seguito, fu pronunciato come zeta aspra fiorentina (/ts/), come nella parola "pazzo" (come avveniva ancora all'epoca di Dante: ne fa fede il brano del dantesco "De vulgari eloquentia" riportato in calce) e in una successiva evoluzione della lingua, è divenuto esse aspra (/s/) in città e, ormai, in buona parte della regione.
Ma esistono, tuttora, zone dotate di pronunce arcaiche in cui la pronuncia "toscana" della zeta è sopravvissuta fino all'anno di grazia 2000, anzi, ormai, quasi 2001.
Ebbene, se si fosse trattato originariamente di un "ce/ci", queste zone avrebbero mantenuto la pronuncia della zeta del toscano o, se si preferisce, dell'italiano standard.
Ma cosí non è e, anche in queste zone linguisticamente arcaiche, si pronuncia e s'è sempre pronunciato /s/, proprio come a Genova.
Ciò costituisce, se mai ve ne fosse bisogno, un'ulteriore riprova.
E l'Anonimo Genovese (o Lucheto), se è corretta la resa grafica delle edizioni pubblicate, usa "se" nei casi del pronome riflessivo di prima plurale (noi).
Perché, allora, non onorare la nostra identità specifica, di diretta e nobile discendenza latina e "cedigliare" per una mal compresa somiglianza con l'italiano ciò che era già "esse" (e tale è rimasta) fin dal tempo in cui gli auguri scrutavano il volo dei rapaci dal Palatino? (Quest'ultima mi è sfuggita e prometto formalmente di non piú ricadervi).
In definitiva, nel genovese, non esiste nessun "çe".
Esiste "ghe" /'ge/ che, oltre al suo valore locativo, ha in genovese anche valore pronominale: "digghe" /'digge/ sta per "digli - dille - di' loro" etc.
Esiste "ne" /'ne/ che ha valore pronominale, non però riflessivo, come sopra riportato.
Esiste il nobilissimo "se" /'se/ il cui uso non coincide totalmente con quello dell'italiano.
Infatti si dice "u pensa pe lê" /u 'peNsa pe 'le:/, quando l'italiano standard richiederebbe "pensa per sé", però si dice, come a Roma e in moltissime altre parti d'Italia, "se vedemmu" /'se ve'demmu/, utilizzando, anche in questo caso, il nobilissimo "se", a differenza dell'italiano standard che richiede "ci vediamo" etc.
Ciò dimostra che le aree di significato di "ghe" /'ge/, "ne" /'ne/ e "se" /'se/ non sono coincidenti con quelle dell'italiano "standard".
Benissimo.
E con ciò ?
Dovremmo "vergognarcene"?
Anziché porci in un sistema di coordinate autoreferenziali e valorizzare anche sotto il profilo scientifico le nostre specificità, saremmo forse vincolati (e da chi, e perché poi?) a studiare la nostra lingua con le regole dell'italiano standard, a "mascherare" la sua indole caratteristica e la sua vera natura per poi arrivare a non piú comprenderla?
ALLEGATO IL BRANO DEL "DE VULGARI ELOQUENTIA" DI DANTE:
Dante, morto nel 1321, paragona nel "De vulgari eloquentia" la zeta dei toscani a quella dei genovesi, la quale dice che "non sine multa rigiditate profertur".
Il brano, tradotto in italiano, suona:
"Se taluno poi stimi ciò che asseriamo dei Toscani non doversi asserire dei Genovesi, questi solo tenga ben presente che, se i Genovesi perdessero per smemoratezza la lettera zeta, dovrebbero o ammutolire del tutto o rifarsi una parlata novella.
È infatti la zeta [grafata proprio tramite il simbolo della cediglia nel manoscritto] grandissima parte della loro parlata e questa lettera, appunto, non si pronuncia senza molta asprezza".
Insumma a /s/ de "se vedemmu", 'na "zeta àspia" a nu l'é mâi stæta.
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